Yūko Tsushima (津島 佑子), scomparsa nel 2016, non è molto famosa in Italia e sicuramente poco tradotta, forse oscurata dalla fama del padre, quell’Osamu Dazai, voce delle inquietudini esistenziali postbelliche, che morì suicida quando la figlia aveva poco più di un anno. Tsushima è stata tuttavia recentemente riscoperta da Safarà Editore che ha riproposto Il figlio della fortuna (Chōji, 寵児) pubblicato in Giappone nel 1978 e apparso sugli scaffali italiani nel 1991 per i tipi di Giunti.

La trama ruota attorno a Kōko, divorziata di 36 anni, occupata saltuariamente come insegnante di pianoforte e non particolarmente entusiasta del suo lavoro né dello stile di vita che conduce, visto che si rifugia spesso nell’alcol per reprimere un generale e costante senso di insoddisfazione. Complice forse è anche la solitudine: Kōko infatti vive da sola in un appartamento a Tōkyō, anche se è madre di una bambina di 12 anni che le sbatte in faccia il suo fallimento come figura materna, dal momento che la bambina non vuole vivere con lei ma si è trasferita dalla zia. La sorella di Kōko è infatti il suo esatto opposto: madre rassicurante e moglie impeccabile, è sposata con un avvocato benestante, ha due bambini e vive – lei che è meritevole, mica una spiantata come la sorella – nella bella casa che fu dei genitori. E ovviamente non manca di criticare Kōko per il suo atteggiamento così poco conforme a ciò che la società si aspetterebbe da una trentenne.

Insomma, Kōko non si comporta seguendo le norme standardizzate e i ruoli imposti dalla società. È divorziata, indifferente all’ideale canonico di famiglia, beve spesso. Rivendica il diritto di concentrarsi su se stessa e sui suoi bisogni. Finché è costretta a rimettere in discussione la sua consolidata routine quando scopre di essere incinta.

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In un primo tempo, questa seconda gravidanza le crea sgomento perché è frutto di una relazione occasionale con l’amico dell’ex marito. Presto però l’esperienza della maternità fuori dall’istituzione del matrimonio diventa un espediente per permettere a Kōko – e all’autrice – di dire altro: Kōko, che questo figlio vuole tenerlo e crescerlo da sola, rivendica l’autosufficienza di una donna single e rifiuta la figura paterna aprendo uno scontro frontale con l’ideologia patriarcale dominante nel Giappone anni Settanta.

La critica di Tsushima infatti non è mai nei confronti della maternità, ma come questa viene istituzionalizzata sin dal periodo Meiji (1868-1912), quando col nuovo codice civile da poco promulgato si era rafforzata una società già fortemente gerarchica e patriarcale che promuoveva l’ideale del ryōsai kenbo (“buona moglie, saggia madre”), necessario per soddisfare i bisogni sociali e politici della nazione. All’interno di questa politica, il ruolo delle donne come servitrici della nazione era accudire il nucleo familiare. Le loro virtù dovevano essere sottomissione, modestia, esclusione dalla vita pubblica, totale dedizione alla vita domestica. Ideali che non sfumarono neppure nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, permanendo nell’agenda dei partiti politici specialmente conservatori, nonostante il neonato movimento femminista, l’Ūman ribu (giapponesizzazione di “women’s lib”), avesse iniziato le prime rivendicazioni già dall’aprile del 1970.

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Ma tornando al romanzo, che dire dell’ambientazione? In genere su questo sito si affrontano opere di narrativa in cui la scenografia è precipua ai fini della trama. Qui invece abbiamo di fronte una Tōkyō sfumatissima: possiamo giusto immaginarci la rassicurante routine dei quartieri residenziali e qualche incursione nella sfarzosa Ginza, luogo in cui si vanno a celebrare traguardi e occasioni.  

Eppure questa è una lettura molto interessante per comprendere il Giappone degli anni Settanta e più estesamente la condizione della donna nella società che purtroppo trova ancora riscontro nel Giappone contemporaneo, dove tuttora le neomamme spesso lasciano definitivamente il lavoro per dedicarsi alla famiglia.

Se da un lato Il figlio della fortuna si configura come un viaggio della protagonista alla ricerca di se stessa, libera da pregiudizi e condizionamenti che la società le impone, dall’altro diventa anche un invito alla riflessione sul ruolo che la società – giapponese, ma non solo -, impone alla donna attraverso il “mito della maternità”, col quale le si richiede con sconcertante naturalezza una totale abnegazione all’istituzione della famiglia, stigmatizzando la possibilità di essere anche altro.