Diciotto isolette vulcaniche gettate tra il Mar di Norvegia e l’oceano Atlantico, nessun paese confinante ma a sud l’ultimo lembo di Scozia, a est la Norvegia, a nord ovest l’Islanda. Sono le isole Fær Øer, dove Siri Ranva Hjelm Jacobsen ha ambientato il suo Isola (Iperborea). Isole dove non c’è nulla, se non la natura: pecore, verde, vento freddo. Isole che, per i pochi abitanti che vi resistono, sono un mondo intero. Un posto magico, fuori dalle coordinate più battute eppure con un ruolo preciso nelle vicende geopolitiche del Novecento, come emerge bene da questa storia familiare, che mescola riflessioni sul concetto di casa a descrizioni di grande poesia e a dettagli geografici e storici sull’arcipelago.

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Qui non siamo in Europa

Il volo da Copenaghen a Vágar è breve, ma l’atterraggio sembra eterno. La montagna si appoggia di peso contro l’apparecchio. Il verde oscura il finestrino. Irrompe all’interno.

Eccole, le isole Fær Øer: sulla mappa che apre la storia. È la vicenda della protagonista, una ragazza sui vent’anni che, alla morte della nonna, si trova sospesa nel tempo delle generazioni che trascorrono e nello spazio che intercorre tra la Danimarca, dove vive con la famiglia, e le isole originarie, quelle dei nonni, e delle vacanze estive. Sta atterrando a Vágar, dove c’è l’aeroporto e dove abitava la nonna Marita, detta omma, con il nonno, abbi. Le isole si manifestano fin dall’atterraggio come elementi precisi, che subito connotano il luogo: le pecore al pascolo e una lingua, il faroese. No, qui non siamo in Europa: siamo alle Fær Øer, un luogo come a se stante, con proprie regole, una fiera storia di indipendenza, una lingua e un universo di affetti, rituali, saghe che si perdono tra ricordi familiari e magia. Isole che hanno ospitato le truppe della RAF per radiotrasmissioni segrete durante la seconda guerra, che hanno ottenuto un proprio parlamento, il Løgting, che hanno vissuto un referendum per la separazione dalla Danimarca. Luogo di pesca, di attività ittica che ha garantito lo sviluppo economico e l’autonomia, tra aringhe, baccalà, uova di merluzzo: siamo nel grande Nord, anche se è un posto un po’ speciale.

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In viaggio tra le isole

Volge le spalle agli alberi bassi del bosco artificiale e guarda giù dalla montagna, verso il villaggio, che è azzurro nella notte d’agosto, e le pecore, simili a pietre nell’erba mossa dal vento. Più in là dorme il mare. Il fiordo di Vàg è calmo, l’azzurro si confonde con quello del cielo sull’orizzonte dritto, teso tra le terre emerse, un filo su cui possono camminare solo creature mitiche e fantasmi.

Vágar è l’isola più a ovest dell’arcipelago, collegata da un tunnel a Streymoy, la più grande. Il viaggio verso Vágar si compie in macchina, sfociando a Vágar in direzione di Bøur, la «spiaggia color piombo», e del fiordo di Sørvágur sulla cui apertura, in fondo, si intravedono Tindhólmur, «che bucava le nuvole con le sua schiena dentata di drago» e l’isola di Mykines.

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Muovendosi tra ponti e tunnel verso est, la famiglia si trova a Streymoy diretta a Thórshavn, la capitale: lì non solo abita la zia della narratrice, ma si trova il masso della huldra: così in faroese si definisce una creatura del bosco con una lunga coda e la schiena fatta di tronchi, un essere fatato e misterioso che, conciliando le aspettative del lettore con l’atmosfera nordica, contribuisce a donare alle storie del passato una sorta di incantato fascino.

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La più meridionale delle Fær Øer è Suðuroy. Lì, a Vágur si trova il Museo di Ruth Smith, pittrice, affacciato sul fiordo, tra container e barche a remi tirate in secco. Sull’isola si trova anche Tvøroyri, da dove salpa la nave che riporterà la famiglia a Streymoy, nonché la centrale idroelettrica di Í Botni, dove avrebbe voluto lavorare il nonno, la sua «Itaca da raggiungere per tornare a casa».

Intorno al gruppetto di case che è il villaggio, c’è la montagna. Le nuvole. Più in là la valle finisce bruscamente. Il villaggio è sospeso, in equilibrio sul mare, sopra una fragorosa cascata. Una scala verticale scende dall’orlo della valle giù in fondo nella risacca. Non c’erano turisti in vista. La valle era nostra, degli uccelli. Profonda e silenziosa. I residenti arrivavano e sparivano nel tunnel con le loro automobili.

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San Giovanni e la luce d’estate

La famiglia della protagonista torna alle Fær Øer dopo la scomparsa della nonna, ma è un ritorno che segue ai tanti: alle vacanze e ai costanti va-e-vieni di un gruppo di migranti, costretti ad allontanarsi dalle radici per poter seguire le proprie aspirazioni. Andata e ritorno: su questi due poli si combatte la battaglia della malinconia, e si ricerca il significato profondo del termine casa per una protagonista che, pur non essendo faroese, sente di appartenere a un mondo fatto di paesaggi, leggende familiari, lingua. Il faroese non è infatti il danese, e seppure ci si intenda cambiando l’accento, l’universo linguistico resta differente: ammantato del mondo delle saghe quello delle isole, percepito come estraneo, continentale, quello della Danimarca.

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«Era sempre estate», dirà la protagonista descrivendo le isole, dove era solita tornare per trovare i nonni durante le ferie e le vacanze istituzionali, oppure nei brevi weekend. Per lei le Fær Øer sono le vacanze estive, il pesce secco e la carne di pecora, perle di una collana che risplende nella magica notte di San Giovanni, la notte della luce per i paesi nordici.

La notte di giugno era una batteria felice e sovraccarica. A Vàgur la notte di San Giovanni, Jóansøku, è una cosa speciale. La gente accorre, anche dalle altre isole, per partecipare a regate, danze e canti di mezzanotte.

Per la festa non solo ci si incontra in piazza e si condivide la ricorrenza, trascinati nella magia della serata, ma si mangiano prodotti tipici, che in questo caso sono i quadratini di pane nero, le fette di patate e i pezzetti di lardo di balena – come si legge in tanti racconti del nord (per esempio Il libro del mare) anche alle Fær Øer hanno una storia secolare di mare e di caccia ai grandi cetacei – oltre alla skærpelår, la coscia di pecora essiccata al vento. È il solstizio d’estate, e al nord il sole sembra non voler mai tramontare: era la notte di San Giovanni e me ne andavo in giro per le stradine ripide tra le case di Vágur, passando davanti alle finestre basse con le tende ingiallite, tende ricamate, tende a festone, le auto parcheggiate a spina di pesce. Sul villaggio incombeva la montagna azzurra.

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Nessun’isola è un’isola

Isola è un viaggio e insieme una ricerca, tra paesaggi, luoghi e sensazioni, alla scoperta di un arcipelago che è unico connotato, e che esclude il resto del mondo, imparagonabile. Sospesa tra la Danimarca e l’arcipelago si trova così la protagonista, intenta, durante gli spostamenti e i numerosi flashback che tornano a indagare la vita dei nonni, a capire qualcosa in più del proprio spaesamento, a riflettere sul concetto geografico e filosofico di casa. Porta con sé la malinconia profonda del nonno, che aveva rifiutato una vita da pescatore alle Svalbard, nel Mar Glaciale Artico, per sconfiggere la solitudine immensa e costruirsi un avvenire come ingegnere. Ma per studiare era necessario spostarsi in Danimarca, e allora ecco tornare la malinconia nel raggiungere la nonna a Copenaghen, la sensazione di appartenenza a un altro luogo. Malinconia, immigrazione, la sospensione tra due mondi, o forse tra nessuno: ma nessun’isola è mai un’isola, come dimostra il piccolo mondo di relazioni, storie piccole grandi che prende vita nelle remote e verdi Fær Øer e tra le vivide parole di Siri Ranva Hjelm Jacobsen.

Trovai un posto riparato dal vento e mi sedetti. La luce scorreva tenue e delicata sugli scogli sopra il mare blu lacca. In fondo, verso ovest, il monte Skúvanes era tutto annerito dal sole. Ascoltavo. Il vento tintinnava come vetro tra le fessure degli scogli nelle pozze d’acqua. La scogliera è scura, spoglia, irregolare. Nella pietra ci sono nodi e venature. Avvallamenti lisci di muschio. Le pozze risplendono.

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Il libro

Isola
Luogo: Isole Fær Øer
Titolo: Isola
Autore: Siri Ranva Hjelm Jacobsen
Editore/Anno: Iperborea, 2018
Genere: Narrativa