In occasione del Salone internazionale del Libro di Torino, ormai alle porte, ecco un ritratto della città attraverso la voce di tre scrittori che ne hanno fatto la storia letteraria: Natalia Ginzburg, nel suo ricordo di Cesare Pavese che rievoca l’atmosfera della città, Mario Soldati, tramite lo sguardo nostalgico del professor Comorio che osserva una Torino in mutamento, e Guido Gozzano, malinconico ma non senza un pizzico d’ironia, che ovunque vada si porta con sé l’immagine di questa città “un po’ vecchiotta e provinciale” ma cara e materna al suo ricordo.

Natalia Ginzburg
Le piccole virtù, 1962.

La nostra città, del resto, è malinconica per sua natura. Nelle mattine d’inverno, ha un suo particolare odore di stazione e fuliggine, diffuso in tutte le strade e in tutti i viali; arrivando al mattino, la troviamo grigia di nebbia, e ravviluppata in quel suo odore. Filtra qualche volta, attraverso la nebbia, un sole fioco, che tinge di rosa e di lilla i mucchi di neve, i rami spogli delle piante; la neve, nelle strade e sui viali, è stata spalata e radunata in piccoli cumuli, ma i giardini pubblici sono ancora sepolti sotto una fitta coltre intatta e soffice, alta un dito sulle panchine abbandonate e sugli orli delle fontane; l’orologio del galoppatoio è fermo, da tempo incalcolabile, sulle undici meno un quarto. Di là dal fiume s’alza la collina, anch’essa bianca di neve ma chiazzata qua e là d’una sterpaglia rossastra; e in vetta alla collina torreggia un fabbricato color arancione, di forma circolare, che fu un tempo l’Opera Nazionale Balilla. Se c’è un po’ di sole, e risplende la cupola di vetro del Salone dell’Automobile, e il fiume scorre con un luccichio verde sotto ai grandi ponti di pietra, la città può anche sembrare, per un attimo, ridente e ospitale: ma è un’impressione fuggevole. La natura essenziale della città è la malinconia: il fiume, perdendosi in lontananza, svapora in un orizzonte di nebbie violacee, che fanno pensare al tramonto anche se è mezzogiorno; e in qualunque punto si respira quello stesso odore cupo e laborioso di fuliggine e si sente un fischio di treni. La nostra città rassomiglia, noi adesso ce ne accorgiamo, all’amico che abbiamo perduto e che l’aveva cara; è, come era lui, laboriosa, aggrondata in una sua operosità febbrile e testarda; ed è nello stesso tempo svogliata e disposta a oziare e a sognare. Nella città che gli rassomiglia, noi sentiamo rivivere il nostro amico dovunque andiamo; in ogni angolo e ad ogni svolta ci sembra che possa a un tratto apparire la sua alta figura dal cappotto scuro a martingala, la faccia nascosta nel bavero, il cappello calato sugli occhi. L’amico misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffè più appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava all’improvviso con mossa fulminea. Riempiva fogli e fogli della sua calligrafia larga e rapida, cancellando con furia; e celebrava, nei suoi versi, la città…

"Torino, la nebbia in Piazza Castello" di smenega, su Flickr
“Torino, la nebbia in Piazza Castello” di smenega, su Flickr

Mario Soldati
L’ultimo torinese, da Storie di spettri, 1962

Poteva immaginarsi, voleva immaginarsi che Torino non cambiasse mai. Perfino le distruzioni dei bombardamenti, aveva quasi cercato di non vederle. La vecchia casa, in cui era il suo alloggio, e l’intero isolato, per una combinazione, erano intatti. Intatto, soprattutto, il grande palazzo Weil-Weiss, sede dell’Unione Industriale: la severa, solida, quadrata mole della fine Ottocento, con le grigie colonne del portale, con le massicce grate del rez-de-chaussée dei sotterranei, con il muro e gli altissimi tigli del giardino. Il professor Comorio era nato nella casa contigua. Si era, dunque, abituato a vedere quel palazzo come la cosa più immutabile di tutta la sua vita. Trovarlo identico, ad ogni ritorno, equivaleva, per lui, a trovare identica l’intera Torino. […]
Subito, non distante da casa, lungo la vecchia via Ospedale […] aveva dovuto arrendersi alla più atroce di tutte le evidenze: al traforo che congiungeva, orrore! via Pomba e via Bogino. Da sempre, via Pomba e via Bogino, pur essendo ciascuna delle due un ideale proseguimento dell’altra, non comunicavano. Era così bello essere obbligati a fare il giro, o da via Carlo Alberto, o da via San Francesco da Paola. Quante volte, nel lungo esilio romano, aveva pensato, con precisa commozione, alla stranezza, rara e anzi unica per Torino, di questo isolato dalla doppia area! Che bisogno c’era, in nome del cielo, che bisogno c’era del maledetto traforo?
In realtà, si trattava di un semplice porticato: e, neanche a farlo apposta, costruito conformemente al più vieto stile torinese. Ma lui, dilaniato, senza ombra di ironia, senza credere di esagerare, diceva “il traforo”: perfino nel segreto del proprio pensiero vi alludeva soltanto con tale parola. […]
E il Teatro Balbo?
Scomparso. Bombardato.
Al suo posto, ora, sorgeva un palazzo qualunque. E niente, niente più che ricordasse l’antico teatro. Una volta, all’angolo della piazzetta, c’era il Bar del Teatro: c’era il Caffè-Ristorante Balbo. Quella casa lì era sempre in piedi. C’era perfino, benché più piccolo, un ristorante. Ma perché gli avevano cambiato nome? Perché cancellare così inesorabilmente il passato? Che cos’era questa furia selvaggia?
Il Caffè San Carlo in piazza San Carlo, il Caffè Nazionale in via Po, il famoso Dilei all’angolo di via Po e via Carlo Alberto: più niente, più niente, più niente. E senza che ne rimanesse traccia. […]
Ciò che lo faceva inferocire più di tutto, forse ancora più degli spostamenti e delle nuove costruzioni, erano i cambiamenti di nome delle vie. […] Ma perché corso Valentino adesso si chiamava corso Marconi? […] E perché via Genova non si chiamava più via Genova ma, guarda che idea! via San Francesco d’Assisi, e avevano dato il nome di via Genova ad un’altra via? […]
Gli sembrava che una smania, una follia di cambiare, comunque e dovunque, avesse travolto la città. E, poiché moltissime delle case rimaste sostanzialmente tali e quali portavano ad ogni modo il segno di qualche novità o nel colore dell’intonaco e delle persiane, che non era proprio quello da lui ricordato, o per la sovrapposizione di una targa pubblicitaria, di un’iscrizione, di una sigla: aveva incominciato a compiacersi, e quasi a godere, soltanto di quelle poche zone che erano state distrutte e non ancora riedificate: macerie, almeno: testimonianze solenni e rispettose di qualche cosa che c’era e non c’è più: ricordo immobile del passato: non obbrobrio di profanazione.

"Torino" di Jungle_Boy, su Flickr
“Torino” di Jungle_Boy, su Flickr

Guido Gozzano
Torino, da I colloqui, 1911

[…]

Come una stampa antica bavarese
vedo al tramonto il cielo subalpino…
Da Palazzo Madama al Valentino
ardono l’Alpi tra le nubi accese…
È questa l’ora antica torinese,
è questa l’ora vera di Torino…

[…]

Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca
tuttavia d’un tal garbo parigino,
in te ritrovo me stesso bambino,
ritrovo la mia grazia fanciullesca
e mi sei cara come la fantesca
che m’ha veduto nascere, o Torino!

Tu m’hai veduto nascere, indulgesti
ai sogni del fanciullo trasognato:
tutto me stesso, tutto il mio passato,
i miei ricordi più teneri e mesti
dormono in te, sepolti come vesti
sepolte in un armadio canforato.

L’infanzia remotissima… la scuola…
la pubertà… la giovinezza accesa…
i pochi amori pallidi… l’attesa
delusa… il tedio che non ha parola…
la Morte e la mia Musa con sé sola,
sdegnosa, taciturna ed incompresa.

IV

Ch’io perseguendo mie chimere vane
pur t’abbandoni e cerchi altro soggiorno,
ch’io pellegrini verso il Mezzogiorno
a belle terre tiepide e lontane,
la metà di me stesso in te rimane
e mi ritrovo ad ogni mio ritorno.

[…]

"DSCN1749" di Ivan Crivellaro, su Flickr
“DSCN1749” di Ivan Crivellaro, su Flickr